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Senza offesa, fai schifo! : la critica tra fotomodelle e non…feat. Marta Blonde Pitbull

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Su Facebook, ho scoperto col tempo l’esistenza di una quotidiana gara alla critica distruttiva tra fotomodelle (anche fotomodelle su fotografi). Di diversi livelli di intensità.
Da leggere contrarietà, a insulti, alla gogna mediatica con tanto di foto e messaggi privati visualizzati nei profili.

Perché? Cosa produce questo fenomeno? Si può evitare in qualche modo?

Per chi si trova fuori dalla testa delle persone che criticano, cioè tutti, è necessario dedurre, da ciò che queste persone dicono, i motivi e le ragioni del loro agire.

Prendo quindi a esempio uno delle ultime critiche lette.
Marta Blonde Pitbull si rivolge a Miele RancidoAlizee e La Grisbi e ad altre che non nomina.

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Analizziamo il messaggio facendo finta di essere degli alieni che non comprendono istintivamente certe comunicazioni umane:

Una stessa comunicazione contiene allo stesso tempo più messaggi.
Contenuto (ovvero: su cosa verte il messaggio)
Rivelazione di sé (ovvero: cosa comunica di sé stesso il mittente)
Relazione (ovvero: che cosa pensa del destinatario)
Appello (ovvero: che cosa il mittente v0rrebbe indurre a far fare al destinatario)

A livello di contenuto il “soggetto criticante” dichiara che le ragazze alle quali si rivolge compiono atti che non dovrebbero compiere, si trovano quindi nel lato sbagliato della vita. Su di loro giudica le “performance fotografiche agghiaccianti” “inutili, e brutti servizi fotografici”, sottolineando il termine agghiaccianti con il maiuscolo, e informando che “ci sono catene di messaggi di persone che le prendono per il culo” per oggettivare questo suo giudizio personale, cioè per farlo diventare una descrizione di caratteristiche presenti nella realtà e non emozioni e pensieri esistenti soltanto all’interno del proprio corpo.

A livello di rivelazione di sé il “soggetto criticante” dichiara che si sta “liberando”, e che quindi aveva un peso, cioè che, in termini metaforici ed esasperati, certe fotomodelle “la fanno cagare” e che quindi non vorrebbe e non riesce o non vuole disinteressarsene, e che si sta liberando di questo peso che le da fastidio “senza preoccuparsi della sensibilità altrui”, né con “timore” delle reazioni delle persone criticate, e che quindi si sente moralmente superiore da giustificare una possibile ferita, e forte abbastanza da non temere controattacchi.

A livello di relazione il “soggetto criticante” comunica che nei loro confronti si pone in un atteggiamento di mancanza di empatia e disinteresse nei confronti dei desideri che soddisfano facendo ciò che fanno, ma estrema repulsione come con gli escrementi.

A livello di appello si può dedurre che le intenzioni non siano state costruttive. Infatti, le critiche possono essere costruttive o distruttive. E per valutare di che tipo sia una critica è necessario considerare che “per poter essere ascoltati, è essenziale che chi ci ascolta non senta automaticamente il bisogno di difendersi da noi”.
Ma è evidente dalla scelta dei termini, dalla scelta del luogo in cui questi termini sono stati pubblicati e dalla dichiarazione esplicita di “non preoccuparsi della sensibilità altrui”, che non c’è stata attenzione nei confronti delle difese automatiche che possono innescarsi in chi si sente attaccato ascoltando una critica.
Quindi si può dedurre che con questo stile comunicativo lo scopo che si voleva ottenere fosse
– “dare per scontato di avere ragione, imponendo il proprio punto di vista ed eliminando la validità di quelli degli altri, e trascurare la complessità dei rapporti umani, in cui ognuno assegna significati diversi alle situazioni, a partire da priorità e da assunzioni diverse”.
– Sentendo di aver ragione non disinteressarsi dal comprendere come stanno le cose dal punto di vista altrui, ma imporre il suo “dover-essere”.
– rifiutare all’altro il riconoscimento della propria autonomia e il suo diritto a far quel che può e che ha senso dal suo punto di vista.

Infine, la criticante, suggerisce ai soggetti criticati, quindi, di fare qualcosa “pensare che la loro strada non è la fotografia”. Fornendo delle motivazioni per fare questa scelta “è bellissimo realizzare che c’è molto altro oltre ai ruoli che ci hanno dato o che ci siamo prese” “infinite possibilità vi state precludendo” ma dicendo così introduce informazioni in precedenza non introdotte rendendo confuso il discorso, cioè il ruolo.

Perché, quindi, una ragazza può arrivare a sentire un bisogno talmente forte che altre ragazze non compiano certe azioni, da tentare di distruggere l’immagine altrui rifiutando il riconoscimento della loro autonomia e del loro diritto di far quel che possono e che ha senso dal loro punto vista?

Lei dichiara che il motivo principale del messaggio è che “è giusto che la verità venga detta”. Ma è difficile credere che l’unico motivo per cui ha pubblicato una critica così distruttiva sia per un senso di giustizia, oppure si dovrebbe credere che per qualsiasi cosa che percepisca di ingiusto faccia la stessa cosa. Infatti, nessuno si interessa di ciò che non lo colpisce o al massimo di ciò che non colpisce altri, e che quindi si può dedurre che chi fa una critica del genere pensi che in qualche modo sia colpito dalle loro azioni, o qualcun altro sia colpito, da certe azioni. Quindi, molto più probabile è che sia una giustizia relativa alla propria persona, anche perché, se fosse una ingiustizia oggettiva, tutti sarebbero d’accordo, e si sentirebbero vittime di una ingiustizia.
Perché, quindi, una ragazza può sentirsi vittima di una ingiustizia nel vedere che certe ragazza fanno certe foto?


Una delle motivazioni tradizionalmente usate per neutralizzare il potere emotivo di un attacco è quella di dire che chi critica lo fa per invidia.
Ma non bisogna fare l’errore di pensare che ogni critica sia fatta per invidia, e nemmeno l’errore opposto di pensare che non sia mai per invidia. Può essere.
Un altro motivo è perché si compete nella stessa attività e si ha l’interesse che ci sia un ordine, quindi una giustizia, per avere la sicurezza di agire, faticare, e potersi aspettare un guadagno e non rimanere delusi, a causa di un disordine nel principio per cui chi ottiene un premio lo ottiene perché se lo merita, e che non lo ottiene, non lo ottiene perché non se lo merita.
Soprattutto in un momento di crisi economica, e di svalutazione delle immagini fotografiche a causa dell’incremento di fotografi/e fotomodelle, l’ansia di non poter guadagnare aumenta, e le difese ancestrali “fuga” o “attacco” rispondono, portando a svalutare gli altri per far risaltare il valore di sé stessi.

CRITICHE COSTRUTTIVE

Si può ragionare sul come fare una critica costruttiva, e riferirlo a chi critica in modo distruttivo per fornirgli la possibilità di scegliere di provocare altri effetti.
Se anche si volesse fare una critica costruttiva, prima di valutare una fotomodella è necessario chiedersi come si fa a valutare una fotomodella, e prima di questo è necessario chiedersi qual’è lo scopo del valutare una fotomodella.
Questo è necessario perché non esiste una valutazione se non è in relazione a qualche bisogno o scopo, e quindi si cercherebbe una risposta senza poterla trovare poiché la domanda è sbagliata.

Ludovica Scarpa nel suo libro “Senza offesa, fai schifo” del 2011 scrive:

La realtà di -primo ordine- è quella misurabile, che non dipende da chi la osserva: la stanza che è larga metri 3,20, mettiamo, o il treno che è partito con 6 minuti di ritardo. Sono -dati di fatto- condivisibili, riscontrabili, se condividiamo il significato delle unità di misura -metro- e -minuto-. Se dico che la stanza che hai scelto per la riunione -è troppo stretta-, esprimo invece un giudizio, un’interpretazione, perchè sia compresa dovrò esporre le mie argomentazioni: in base a quali aspettative la ritengo -troppo stretta-?

Quindi, c’è chi può dire che una fotomodella “è scarsa” o “è brava”, ma detto così, senza aggiungere né le azioni in cui è scarsa o brava, né cosa ci si aspettava da lei, non si sa in relazione a quale bisogno essa sia scarsa o brava, anche se spesso si possono ipotizzare i riferimenti impliciti ad esempio (in base a quello che la maggioranza delle persone crede sia una bella foto, in base alle foto che si vedono di più, quelle pubblicitarie).
A causa di questa ignoranza nei confronti del riferimento, o incertezza nel caso lo si ipotizzasse come riferimento sottinteso, è quindi necessario aggiungere un riferimento esplicito.

Non esiste un solo modo di valutare una fotomodella, ma molti modi. E inoltre si può valutare una fotomodella prima di aver fatto un set e dopo aver fatto un set, avendo partecipato o non avendo partecipato.
Non si possono avere certe informazioni nel valutare un set visto soltanto in foto, perché solo se si è presenti si può sapere se si è corretto la modella, e in che quantità il fotografo ha corretto la fotomodella nelle sue pose ed espressioni, e determinare quindi la sua capacità di interpretare in modo autonomo le indicazioni del fotografo.
Allo stesso modo non si può valutare la capacità di comunicare ciò che immagina il fotografo e quindi la fatica fatta dalla fotomodella per comprendere ciò che deve fare per soddisfare le richieste ricevute. Quindi, ci si può limitare a valutare le foto.

Lo scopo del valutare una fotomodella prima di fare un set fotografico, per i set già scattati con altri, che può essere comune a tutti i fotografi/e che lo fanno, può essere il voler fare un lavoro per cui una volta finito non si si è scontenti del risultato ma contenti, e quindi il tentare di calcolare come potrebbe andare nel futuro set, in base a ciò che ha già fatto in passato la fotomodella.
Perciò è necessario sapere come si fa a essere contenti del risultato. Ma per averne la certezza si dovrebbe riuscire a riprodurre esattamente il risultato che si immagina, e non accade mai questo.
Perciò, questa previsione è sempre una approssimazione.

Ma un osservatore dovrebbe avere la necessità di valutare una fotomodella piuttosto che la foto, se non è interessato a scattarle foto? Una fotomodella che non è anche fotografa potrebbe avere l’interesse di valutare le altre fotomodelle per giudicare sé stessa facendo un confronto tra il giudizio su sé e il giudizio sulle altre. Infatti, è attraverso il confronto che si possono fare giudizi.
Ma, l’unico interesse che dovrebbe avere una fotomodella nel giudicare un’altra fotomodella se l’altra non glielo ha chiesto, è quello di volerla aiutare con informazioni utili.

Si può considerare che una fotomodella è anche anche un’osservatrice esterna. E tutti gli osservatori possono giudicare una fotografia per verificare la validità dei propri giudizi attraverso il confronto con altri punti di vista, oppure per comunicare informazioni utili alle altre fotomodelle (ma non era di sicuro il caso di Marta).
Dunque, un osservatore esterno può avere essenzialmente l’interesse di valutare la corrispondenza del soggetto con gli scopi della foto.
E per farlo è necessario valutare due fattori:
Bellezza estetica (corrispondenza con i canoni estetici e fotogenia)
Capacità interpretativa (espressività del viso, flessibilità del corpo, decodificazione delle richieste del fotografo)

Se si intende valutare la qualità di una fotomodella in base alla sua corrispondenza con il concetto di quella che alcuni chiamano fotografia professionale e altri artistica, è necessario valutare un insieme di parametri senza i quali non si distingue uno scatto fotografico in cui il caso determina in una percentuale vicina alla totalità il risultato di una foto da uno scatto fotografico in cui si ricerca qualcosa che si immagina in modo dettagliato.

Nella fotografia professionale, per essere coerenti con un certo canone fotografico (ad esempio fashion, glamour, ritratto) già proposto e tramandato nelle sue caratteristiche essenziali da chi ha fotografato in un tempo precedente ai nuovi fotografi, è necessario valutare la fotomodella in base a quei canoni estetici, e quindi conoscerli.

Se si vuol valutare la fotomodella in base alle sue abilità per avere un controllo cognitivo su quello che ci si può aspettare da lei diventa difficile la valutazione.
Poiché una fotomodella non può vedere la sua immagine senza un supporto riflettente, deve immaginare la propria immagine dall’esterno immedesimandosi nel punto di vista del soggetto che coincide con la fotocamera. In base a questa identificazione sceglierà di socchiudere gli occhi, alzare le sopracciglia, aprire la bocca o fare altro, piegare gli arti. Tanto più riesce a comporre configurazioni che indicano uno stato emotivo che non ha realmente dentro di sé, tanto più è capace di soddisfare le richieste del fotografo/a.
Ma per poter affermare che una fotomodella X abbia Y capacità di interpretare, bisogna prima identificare quante e quali responsabilità ha la fotomodella nel risultato di una fotografia per poter valutare la sua capacità di comportarsi durante il set in un modo giusto per la riuscita delle foto.
Infatti, la responsabilità maggiore di ciò che si vede in una fotografia è del fotografo/a, perché è lui/lei che controlla cosa è riuscita a fare la fotomodella, con la propria capacità di utilizzare il proprio corpo muovendo muscoli e arti, che è la stessa capacità allenata dagli attori di cinema, e quindi è lui/lei che può chiedere di rifare la posa o che decide se cancellare la foto.

Inoltre, la fotomodella può muovere i muscoli del proprio corpo in modo da configurare espressioni che indicano la presenza di emozioni e che tipo di emozioni sono presente nel soggetto osservato. La contrazione in contemporanea di una serie di muscoli avviene in modo spontaneo nella vita quotidiana e quindi si è inconsapevoli del modo in cui si arriva a contrarli in quel modo. Per questo a volte nel cinema, l’emozione viene ricreata a partire dal riprodurre i comportamenti che in una condizione naturale sarebbero gli effetti sul suo organismo. Ma raramente una fotomodella arriva a usare tecniche sofisticate come quelle cinematografiche.
La valutazione del realismo di una configurazione esteriore è un processo semivolontario nel fotografo, lo si percepisce, intuisce, sente, quindi non c’è un metro di misura preciso.

Tuttavia il risultato finale di un set fotografico può essere anche frutto del caso, o della selezione di tanti scatti e non della sola volontà della fotomodella, e dunque ciò che ha ottenuto un fotografo può non riuscire a ottenerlo un altro fotografo.
Il portfolio nel caso di fotomodelle che lavorano con fotoamatori per soldi può essere il frutto delle insistenze dei fotoamotori o del desiderio di non far dispiacere loro delle fotomodelle o della paura che se non si caricano tutte le loro foto comincino a sparlare dicendo cose anche false alle quali però la gente crede. Dunque nel vedere pose malfatte la causa potrebbe essere solo una distrazione della fotomodella e la scelta di tenere uno scatto non buono del fotografo inesperto.
Il fotografo come può sapere con sicurezza se la configurazione fisica che la fotomodella ha nelle foto è frutto del caso, o della selezione di tantissimi scatti, e non della volontà della fotomodella?

Come può essere sicura una fotomodella che al movimento di qualche parte del suo corpo corrisponda una configurazione reale che immagina essersi attuata? memorizzando l’immagine del proprio corpo con una certa posizione, ripetendo l’atto del guardarsi allo specchio mentre ci si muove o posando e ricevendo una risposta positiva dal fotografo.
Moltissime configurazioni possono dipendere dal caso e non dalla corrispondenza dei movimenti con l’immaginazione dalla corrispondenza dei movimenti fotomodella. cioè, per dare un merito o un demerito a qualcuno, quel qualcuno deve essere responsabile delle proprie azioni. un fotografo può fare uno scatto e ottenere una foto che non si aspettava assolutamente. quindi dove sta il merito in realtà? è come fosse una specie di incidente.

Alla fine, ogni foto è un misto tra impegno a realizzare l’immaginazione, e gli effetti del caso e degli errori.

Si può tentare di suggerire altri modi di esprimersi alle fotomodelle che criticano le altre fotomodelle, ma loro hanno sempre la possibilità di aumentare il grado di rifiuto e non seguire la proposta. Dunque, diventa necessario agire sulla propria reazione emotiva senza sperare nell’intervento dell’altro.

Nessuno può riuscire a farci del male a parole senza il nostro consenso. “Se mi insulti e io ritengo che tu stia scherzando o sia travolto da problemi tuoi, bene, non me la prenderò. Se alle tue parole non assegno un significato che mi sminuisca personalmente, non lo hanno.” Una volta analizzato il contenuto oggettivo della critica ci si può chiedere dell’altro “Che cosa mi sta dicendo di sé?” e comprendere che soffre, ed essendo in difficoltà lo potremmo trattare con empatia, ma senza la responsabilità di obbedire a norme che non hanno niente a che fare con la giustizia, ma che hanno a che fare con bisogni personali, lasciando così che sfoghi la sua rabbia senza pensare che ci sia qualcosa di vero e per il quale ci si deve realmente vergognare o sentire in colpa. In questo modo si toglie il potere che tenta di prendersi attraverso tentativi di ferite (insulti, critiche distruttive, esagerazione, derisione, influenzamento degli altri) e si rimane sereni, e dunque si risolve il problema del non essere accettati. Si può dire “Mi dispiace se provi queste emozioni negative e se pensi queste cose. Però non posso cambiare parametri, perché ciò che hai detto non è per me sufficientemente dissuasivo e vero.” e lasciar stare. Ma per farlo è necessario abbandonare il principio secondo il quale per farsi rispettare è necessario agire allo stesso modo in cui non si è stati rispettati, tentando di ferire. Occhio per occhio.

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